Per la prima volta nella storia, il West Texas Intermediate (WTI) in territorio negativo. L’entusiasmo per 10 milioni di b/g di tagli annunciati a inizio aprile dai maggiori Paesi produttori è rapidamente evaporato di fronte alla realtà di una domanda petrolifera che, secondo le stime dell’International Energy Agency, solo in aprile perderà oltre 30 milioni di b/g di consumi, chiudendo il 2020 con il calo più forte degli ultimi 50 anni (fig 1).
Dopo essere risalito sopra i 34 $/b. nella prima settimana del mese in meno di 20 giorni il Brent si è riportato di nuovo verso i 20 $/b. precedenti all’accordo. Ancora più pesante il declino messo in luce dal WTI, finito addirittura in territorio negativo nella notte tra il 20 e il 21 aprile (fig 2). Una situazione inedita, che tuttavia trova una spiegazione nel meccanismo di liquidazione dei contratti che caratterizza questa tipologia di greggio.
Senza addentrarci troppo nei tecnicismi, una delle particolarità del mercato del WTI è data dal fatto che la liquidazione dei contratti futures avvenga con la consegna fisica, invece che in contanti come, ad esempio, nel caso del Brent. Nelle circostanze eccezionali generate dagli effetti delle misure di contenimento del Covid-19, il crollo della domanda delle raffinerie ha tuttavia portato all’accumulazione di una enorme quantità di petrolio invenduto a Cushing, Oklahoma, il punto di consegna del WTI, portando in breve tempo alla prenotazione di tutto lo spazio di stoccaggio disponibile (fig 3). Privati della possibilità di accettare le consegne di petrolio, gli operatori di mercato che non avevano ancora regolato la loro posizione nella notte del 20 aprile (data di scadenza per la consegna di maggio) sono rimasti con il cerino in mano: costretti a liquidare in massa le proprie posizioni, hanno accettato addirittura di pagare fino a 37 $/b. pur di liberarsi dei loro contratti “in acquisto”.
Quello verificatosi tra il 20 e il 21 aprile può pertanto essere catalogato come evento eccezionale, mai verificatosi in precedenza e giustificato perlopiù da fattori tecnici (al momento in cui scriviamo il contratto del WTI per la consegna di giugno si è già riportato intorno ai +10 $/bb,) ma che sarebbe semplicistico archiviare come una semplice aberrazione temporanea del mercato. L’esaurimento dello spazio di stoccaggio a Cushing è, infatti, indicativo di disequilibrio tra domanda e offerta molto più ampio delle attese, frutto a sua volta di un impatto delle misure restrittive sui consumi di petrolio (e, verosimilmente, sui livelli di attività economica) molto più intenso di quanto ipotizzato solo pochi giorni fa. Ciò apre a nuovi, pressanti interrogativi sia per la gestione immediata della crisi sia per le prospettive di uscita dalla stessa: un tema che riguarda i mercati delle materie prime, nello specifico quello del petrolio, le cui ramificazioni si estendono però a molti altri settori economici.
Salvare a tutti i costi o adeguarsi alle leggi del mercato? Un primo interrogativo riguarda la disponibilità di strumenti adeguati per fronteggiare gli effetti della crisi dei consumi che, per gli Stati Uniti, si declina nella possibilità o meno da parte del governo nel mettere l’industria dello shale oil al riparo dagli inevitabili fallimenti a catena cui, ceteris paribus, sarebbe destinato questo settore. Con la maggior parte degli impianti caratterizzati da prezzi di breakeven superiori ai 35 $/b e 40 mld di $ debito in scadenza nel 2020-23 è infatti questione di settimane, non di mesi prima che le compagnie estrattive Usa inizino a uscire in massa dal mercato. Una sfida resa più pressante dall’imminente scadenza elettorale di novembre, cui finora l’amministrazione Trump non è riuscita a dare una risposta adeguata. L’esaurimento dello spazio di stoccaggio è, infatti, la prova lampante di come il taglio produttivo promosso a inizio aprile sia giunto con troppo ritardo, e in misura troppo esigua per fronteggiare una caduta a doppia cifra dei consumi; altrettanto inadeguate appaiono tanto le promesse di imposizione di una sorta di dazio sul greggio importato dall’Arabia Saudita (che “pesa” per meno del 6% sul totale delle importazioni statunitensi) quanto la ricostituzione delle scorte strategiche (SPR), i cui ritmi di assorbimento (pari a circa 500mila barili/giorno) rappresentano solo una frazione del calo dei consumi giornalieri osservato nelle ultime settimane. L’unica carta in grado di salvare il “gioiello della corona” dell’amministrazione Usa appare quindi quella di un intervento con capitale pubblico per salvare gli impianti in crisi, la cui efficacia è tuttavia condizionata alla durata dello shock: se il Coronavirus (via, ad esempio, promozione massiccia del lavoro da casa) portasse a una revisione strutturale dei consumi di carburanti, che senso avrebbe mantenere in piedi un settore che produce in eccesso rispetto al fabbisogno del mercato? Un dilemma che riguarda da vicino il mercato petrolifero ma, per similitudine, coinvolge altri importanti settori colpiti in modo pesante dalla crisi del Covid-19, trasporti (aereo e ferroviario) in particolare.
Cosa ci aspetta dopo la fase di emergenza? Se la tempistica di uscita dalla crisi e dell’avvio della fase 2, tanto negli Usa quanto nel resto del mondo, saranno fondamentali per interpretare la direzione futura del prezzo del petrolio, altrettanto decisiva sarà una lettura in anticipo delle cicatrici che il Covid-19 lascerà sui modelli di crescita futuri. Uno studio pubblicato sulla rivista Science [1] anticipa la necessità da parte dei policymaker di prescrivere un certo grado di distanziamento sociale almeno fino al 2022, al fine di evitare nuove ricadute della pandemia su larga scala. È verosimile che ciò, al netto di una scoperta in tempi rapidi di una cura/vaccino efficace, continuerà a condizionare, in modo inconscio o meno, le attitudini dei consumatori e imprese ben oltre la cessazione della fase di emergenza, portando a un graduale radicamento di alcuni modelli di consumo (e produzione) implementati negli ultimi due mesi. Ad esempio, per restare sui mercati del petrolio, è facile immaginare un futuro caratterizzato in cui i mezzi di trasporto individuali saranno preferiti rispetto a quelli collettivi ma dove, al contempo, il lavoro tradizionale tenderà a muoversi dagli open space verso forme più evolute di telelavoro. Non ci addentriamo nel trade-off tra i maggiori consumi di benzine associati al primo scenario, e i minori dell’altro, ma vogliamo porre l’accento sul fatto che il Covid-19 lascerà tracce destinate a permanere molto oltre la fase più acuta della crisi, rendendo inevitabile un adeguamento del modello economico ai mutamenti delle scelte di consumatori e imprese.
Cosa resterà dei trend del passato? La lotta all’inquinamento ambientale ha rappresentato uno dei più importanti driver delle scelte di policy implementate in Europa, negli anni più recenti: si pensi alle normative di riduzione delle emissioni di CO2, i cui effetti si sono riflessi direttamente (via minori consumi energetici) sulla domanda petrolifera, contribuendo a frenare il suo percorso di crescita e favorendo la transizione verso un modello di sviluppo più sostenibile. Questi sforzi rischiano di venir meno in uno scenario in cui, alla prospettiva di una riduzione dei fondi raccolti per favorire la transizione green, vittime designate per attutire l’enormità del sostegno fiscale immesso nel sistema, si associa la minore appetibilità di forme di trasporto alternative a quelle tradizionali dovuta ai minori costi dei carburanti. Il rischio è che, pur non accantonato del tutto, il tema della transizione energetica sia destinato a scivolare in secondo piano tra le priorità dell’agenda dei policymaker nel periodo di uscita dalla crisi. Per quanto in apparenza giustificata dall’eccezionalità del momento storico, si tratterebbe tuttavia di una strategia miope: come evidenzia uno studio recentemente pubblicato da Prometeia, uno stimolo fiscale in investimenti green potrebbe infatti generare un percorso di crescita superiore a quello precedente, anticipando al contempo di cinque anni il raggiungimento del traguardo della carbon neutrality.
In conclusione, l’esaurimento dello spazio di stoccaggio di petrolio in Nord America, di cui i prezzi negativi sono la diretta conseguenza, ha dato saggio della pervasività e dell’enormità dello shock causato dalle misure di distanziamento sui mercati delle materie prime energetiche. In questa sede abbiamo posto l’accento su tre aspetti che, ovviamente, rappresentano solo un assaggio della miriade di interrogativi associati all’impatto economico del lockdown. Compito di policymaker e imprese sarà guidare l’uscita dalla crisi ripensando e ristrutturando il modello di sviluppo attuale, bilanciando tra opportunità e rischi di uno scenario economico e sociale che, come la dinamica dei prezzi e delle scorte di petrolio sembrano suggerire, risentirà degli strascichi del Covid-19 per molto più tempo di quanto inizialmente previsto.