A metà luglio si è tenuto a Roma il Summit W20, un incontro, all’interno dell’agenda del G20, per formulare analisi e proposte da portare al tavolo del vertice generale di ottobre, che mettano al centro della ripresa la partecipazione economica femminile.
Tra gli obiettivi identificati dal Summit, l’incentivazione e la valorizzazione dell’imprenditoria femminile è una delle questioni più trasversali tra i paesi UE, e anche tra le più “irrisolte”: se negli ultimi vent’anni infatti il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è cresciuto di oltre 3 punti percentuali, la quota di imprenditrici è invece rimasta invariata. Meno del 5% delle donne europee è imprenditrice, con un gap medio rispetto agli uomini di 4.3 punti nel periodo 2014-2018.
In Italia, il differenziale tra imprenditori e imprenditrici si attesta intorno a 4.8 punti percentuali se guardiamo alle imprese consolidate. Ma il dato medio nasconde un’ampia disparità territoriale: il 36.3% delle imprese femminili infatti si concentrano nel Mezzogiorno, dove la loro quota sul totale è generalmente più elevata (Fig. 2).
Una maggiore rappresentazione delle imprenditrici nelle regioni del Sud è spesso attribuita all’effetto autoimpiego: le criticità del mercato del lavoro spingono più donne a mettersi in proprio.
Strutturalmente, la partecipazione al mercato del lavoro e l’occupazione femminile nel Mezzogiorno registrano dati più bassi della media nazionale, e significativamente inferiori rispetto alla media europea, ma l’analisi del divario di genere tra lavoratori dipendenti e imprenditori rivela due dinamiche contrapposte: il gap di genere tra i dipendenti nel Mezzogiorno è il più ampio, con le occupate dipendenti quasi il 53% in meno rispetto ai colleghi uomini (contro il 21% della media italiana, Fig.3). Per le imprenditrici il gap risulta invece relativamente inferiore rispetto alla media nazionale: le imprenditrici del Mezzogiorno sono poco più di un terzo degli imprenditori, rispetto ad una media italiana che vede gli imprenditori superare le imprenditrici di oltre due volte e mezzo (Fig.4).
Le imprenditrici del Mezzogiorno sono anche l’unica categoria professionale, insieme agli imprenditori del Nord Est, ad aver registrato una variazione positiva nel 2020 (+2.3%), a fronte di un calo generalizzato degli occupati del 2%: una dinamica anticiclica che sembra confermare l’importanza del driver autoimpiego nell’area.
Più in generale però, le donne continuano a pagare un prezzo più alto degli uomini della crisi provocata dalla pandemia. A pesare maggiormente sulle performance delle imprese femminili è stata la componente settoriale: i comparti più colpiti dalla crisi sono infatti quelli in cui la specializzazione dell’imprenditoria femminile è più alta: servizi a persone e imprese (al cui interno il settore dei servizi alla persona registra la più alta quota di imprese femminili: 59%), accoglienza e ristorazione, cultura e intrattenimento e alcuni settori industriali come il sistema moda (Fig. 6).
L’impatto sulle nuove iscrizioni di imprese femminili è già evidente nel secondo trimestre 2020. A fronte di un calo di iscrizioni del 35.2% delle imprese maschili, le femminili hanno registrato un crollo più consistente (-42.3%). Divario che si allarga notevolmente in alcune regioni del Nord (Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria) ed è invece ridotto nelle regioni del Sud, fino ad invertirsi in Molise e Basilicata (le regioni a maggior prevalenza di imprenditoria femminile), in cui il calo di iscrizioni maschili supera quello femminile.
Ridare slancio all’imprenditoria femminile nella ripresa richiederà quindi uno sforzo mirato alle esigenze e agli ostacoli specifici che affrontano le imprenditrici. Primo su tutti, l’accesso al credito: un basso ricorso al credito bancario delle imprese femminili (solo l’11% dichiara di farne un ricorso “intenso” [1]) risulta critico sia per l’efficacia delle misure emergenziali di sostegno alla liquidità delle imprese che per la crescita in generale.