Alcuni la chiamano shecession, altri pink-collar recession, per sottolineare come, rispetto alle precedenti, questa crisi abbia un impatto maggiore sul mercato del lavoro e sulle prospettive di impiego delle lavoratrici. Impiegate in settori più esposti al rischio sanitario durante la fase acuta dell’epidemia e nei settori più colpiti dalla crisi economica, le lavoratrici risultano oggi più a rischio rispetto alla crisi finanziaria del 2008-2009, definita appunto mancession, perché aveva toccato settori come l’edilizia e la manifattura pesante, a occupazione prevalentemente maschile.
Negli Stati Uniti, il National Bureau of Statistics riporta che le lavoratrici americane abbiano lasciato sul campo il 55% dei 20.5 milioni posti di lavoro persi in aprile, il tasso di disoccupazione femminile è salito così per la prima volta in un decennio sopra quello dei colleghi uomini. Nel Regno Unito, l’Institute for Fiscal Studies stima che un terzo delle occupate lavori nei settori sottoposti al lockdown, risultando in perdite di posti di lavoro temporanei o permanenti, soprattutto per le fasce meno qualificate. Istat stima che il tasso di inattività femminile ad aprile sia cresciuto di 2.3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4.3 punti rispetto ad aprile 2019, contro i rispettivi 1.6 e 3.7 punti del tasso di inattività maschile.
Se originariamente il Covid era stato definito “the great equalizer”, uno sguardo più attento alle caratteristiche occupazionali dei settori a rischio (di contagio ed economico) restituisce un quadro tutt’altro che equo dell’impatto della crisi fra i generi. In un contesto già fragile come quello italiano, che mostra il più basso tasso di attività femminile dell’Unione Europea, la natura asimmetrica di questa crisi rischia di indebolire ulteriormente l’insoddisfacente partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Il divario di genere nel tasso di letalità del Covid (oltre il 50% più alto per gli uomini che per le donne, stando agli studi fino ad ora disponibili) è stato ampiamente studiato da virologi ed epidemiologi ed è noto all’opinione pubblica. Fattori biologici, genetici e comportamentali sembrano alla base del gender gap nel tasso di letalità. Le donne tuttavia non appaiono meno vulnerabili al contagio. L’ultimo dato disponibile (26 maggio 2020) restituisce un divario opposto: le donne contagiate in Italia sono il 18% in più rispetto agli uomini. In particolare, sono le fasce più giovani della popolazione, quelle in età lavorativa, a mostrare lo scarto più ampio: sotto i 60 anni le donne contagiate sono il 23% in più rispetto agli uomini.
Altri fattori, oltre a quelli precedentemente citati, devono essere ipotizzati per spiegare questo gap nelle coorti più giovani. In particolare, il profilo occupazionale e la conseguente esposizione al rischio potrebbero essere elementi chiave per capire l’alto tasso di contagio tra le donne più giovani. Questa suggestione trova conferma analizzando il contributo femminile secondo l’indicatore del grado di rischio settoriale elaborato dall’Inail. L’Istituto ha infatti messo a punto un indicatore del livello di esposizione al rischio Covid basato su tre parametri (esposizione, prossimità e aggregazione) per ciascun settore produttivo [1]. La scala di rischio si compone di quattro livelli: basso, medio basso, medio-alto e alto.
Secondo l’indicatore le donne sono occupate in settori a rischio per una quota superiore rispetto agli uomini, con un divario di 5 punti percentuali sia nei settori a rischio medio-alto, che in quelli a rischio alto. Le professioni ad appannaggio più femminile, nei servizi alla persona o nella ristorazione per esempio, sono quindi più esposte a rischio di contagio. L’8% delle donne occupate lavora nella classe di rischio più alta, contro il 3% dei colleghi uomini. La percentuale cresce al 13% (contro il 5% per gli uomini) se si considerano esclusivamente i settori ritenuti “essenziali” dal DPCM del 22 marzo, a dimostrazione di come le lavoratrici siano state esposte a un rischio sanitario in percentuale superiore durante il lockdown.
La crisi economica prodotta dalla pandemia è strutturalmente diversa dalle recessioni più recenti, soprattutto nella distribuzione dei settori e della tipologia dei lavoratori più colpiti. La crisi finanziaria del 2009 aveva portato a una contrazione significativa di settori a predominanza maschile, come le costruzioni e settori manifatturieri tra cui la metallurgia e l’automotive. La recessione in corso, caratterizzata dal lockdown di attività ad alta interazione sociale, colpisce duramente alberghi, ristoranti e settori retail, tutti con una caratterizzazione femminile più marcata rispetto ai comparti più penalizzati dieci anni fa. Nel 2009, tra i dieci settori che registravano una maggiore contrazione del fatturato, solo due erano settori di specializzazione femminile [2] (elettrodomestici e altri prodotti), nel 2020 si stima che siano quattro (vedi figura 2). In particolare, tra i settori manifatturieri, il settore a più alta specializzazione femminile, il sistema moda, risulta tra i più penalizzati dalla crisi in corso.
Per quanto riguarda i servizi, il settore alberghi e ristoranti, che nel 2009 aveva registrato un calo di fatturato dello 0.9%, oggi è atteso in contrazione del 26.2%. Il comparto è tra i settori a maggior contributo femminile relativo (49%) e occupa il 12% delle lavoratrici, contro il 7% degli occupati uomini.
Un’altra chiave di lettura per valutare gli impatti sul lavoro della crisi Covid è quello della diversa possibilità di lavorare da remoto tra i settori, un elemento che ha garantito o meno continuità di attività, redditi e prospettive durante la fase più intensa del lockdown e che ancora oggi segna l’organizzazione di molte attività produttive.
La conversione in smart working di molte delle attività essenziali ha protetto dal rischio occupazionale solo una parte delle lavoratrici e anche in questo caso in quota inferiore rispetto ai lavoratori. Secondo l’indicatore che misura la possibilità di lavorare da remoto redatto da Inapp-ICP [3], i quattro comparti con più difficoltà nella conversione delle attività in modalità di lavoro agile sono i servizi di alloggio e ristorazione, il commercio, le costruzioni e la sanità. Complessivamente questi settori occupano il 43% delle lavoratrici dipendenti, e solo il 33% dei lavoratori. Al contrario, comparti ad appannaggio più tradizionalmente maschile come l’industria finanziaria, bancaria e assicurativa, e la maggior parte dei servizi professionali, presentano livelli elevati dell’indicatore. In Figura 3 è rappresentata la distribuzione degli occupati per genere, suddivisi in cinque classi in base all’indice di smart working. Il divario di dieci punti percentuali evidenziato nei macrosettori è confermato anche da un’analisi più fine dei settori produttivi.
La stabilità contrattuale è un ulteriore elemento di attenzione per valutare gli impatti sull’occupazione femminile, considerando che il tasso di rinnovo per i lavoratori precari è atteso in diminuzione a causa della difficile situazione economica. Il 16% delle occupate ha un contratto a tempo determinato, leggermente superiore allo stesso indicatore per il lavoro maschile. Tuttavia la quasi totalità del gap con gli occupati uomini si concentra nella fascia 15-29 anni, dove il divario si allarga a cinque punti percentuali e dove verosimilmente l’espulsione dal mondo del lavoro oggi andrebbe a condizionare prospettive future (in termini di carriera, ma anche solo di partecipazione o meno).
La fascia 15-29 è anche quella in cui il gap tra il tasso di partecipazione maschile e femminile è al minimo, sia rispetto alle altre fasce di età, sia storicamente (figura 5). In questo senso, il rischio che la crisi colpisca più duramente le giovani lavoratrici si tradurrebbe in una minaccia al trend crescente di partecipazione femminile al mercato del lavoro, in una fascia d’età cruciale per la scelta di ingresso e permanenza nel mercato occupazionale.
Storicamente gli shock possono portare a cambiamenti economici e sociali persistenti. In altri articoli abbiamo sottolineato per esempio come i modelli di consumo continueranno ad essere influenzati in futuro dall’impatto della fase di emergenza della crisi. Analogamente, in questo contesto, il rischio è che il trend positivo dell’occupazione femminile possa arrestarsi, se non addirittura capovolgersi. Il carico dei lavori domestici e la gestione della scuola a distanza durante la crisi [4] rappresenta un campanello d’allarme e potrebbe costituire un ulteriore stimolo ad abbandonare o ridurre l’orario di lavoro. L’esperienza del passato [5] e la particolare staticità del mercato del lavoro italiano suggeriscono che la perdita di posti di lavoro, specialmente durante una recessione, possano lasciare cicatrici nel tessuto economico, in termini di riduzione di redditi e opportunità, che durano per anni.
Occorre peraltro considerare questo tema non solo dal lato della questione di genere, ma anche in chiave di sviluppo e crescita per il paese. Rispetto al passato, la composizione del reddito nei nuclei familiari è molto cambiata, e uno shock sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro si tradurrebbe in uno shock sul reddito delle famiglie molto più pesante che nelle precedenti crisi. Secondo l’indagine di Banca d’Italia, in oltre un terzo delle famiglie italiane il maggior percettore di reddito è una donna (figura 6), una quota cresciuta di due volte e mezzo in quarant’anni.
L’analisi della demografia della crisi non ha a che vedere solo con questioni di uguaglianza, ma anche con l’impatto sul reddito delle famiglie, che non può possono contare, come nelle crisi più “classiche”, sul reddito delle donne, occupate in gran parte in settori tradizionalmente anticiclici [6].