Economic Complexity Index, il ranking dei principali paesi

Economic Complexity Index, il ranking dei principali paesi

3 ottobre 2018

Giacomo CotignanoAndrea Dossena, Maria Sara Pichierri

Nota metodologica sull’ECI sviluppato dall’Harvard’s Center for International Development

 

L’idea che la prosperità di una nazione derivi dalla sua capacità di sviluppare prodotti sempre più complessi e innovativi, capaci di conquistare i mercati mondiali e garantire vantaggi competitivi duraturi è vecchia tanto quanto le prime teorie economiche successive all’avvento della rivoluzione industriale (da Adam Smith in poi, per intenderci).

Molto meno assodato, invece, è cosa debba intendersi per complessità e, soprattutto, come misurarla. Il vasto campionario di indicatori via via sviluppati si divide in due grosse categorie: le misure della complessità dei prodotti (spesso definita a priori: un computer è ritenuto generalmente più complesso rispetto a una confezione di pasta) o, sull’altro versante, la misura della complessità dei singoli paesi (scolarizzazione, spese in R&S, brevetti, anche in questo caso definiti aprioristicamente). Uno dei pochi indicatori capaci di superare i limiti di quelli finora proposti (definizioni aprioristiche di complessità e “unidirezionalità” dell’analisi, dai prodotti ai paesi o viceversa) è quello sviluppato, a partire dai primi anni di questo decennio, dall’Harvard’s Center for International Development e noto col nome di Economic Complexity Index (ECI).

L’ECI, calcolato su dati di export, è individuato sulla base delle definizioni, tra loro collegate e ricorsive, di paesi e prodotti complessi: un paese è complesso quanto più il suo export è caratterizzato da un’ampia varietà di prodotti (diversity) che siano esportati anche dagli altri paesi a elevata complessità (ubiquity), mentre un prodotto è definito complesso quando è esportato in prevalenza (proximity) da paesi con prodotti complessi nel proprio export, ovvero paesi con elevate diversity e ubiquity medie dei prodotti esportati.

Semplificando, per ogni prodotto esportato da un paese andrà verificato quali altri paesi lo esportano e quale sia il loro mix di prodotti esportati, mix per il quale, dando il via a calcoli ricorsivi, andrà verificato quali paesi lo esportino. Si tratta di risolvere un sistema di operazioni algebriche in cui la matrice di partenza è costituita dai paesi esportatori e dai singoli prodotti, con valori pari a 1 se il paese presenta un vantaggio competitivo [1] nell’export di quel prodotto e a 0 in caso contrario, in seguito moltiplicata per i vettori di tutti i prodotti per ogni paese (calcolo della diversity) e di tutti i paesi per ogni prodotto (calcolo dell’ubiquity). L’indicatore di complessità dei paesi (prodotti) risulta essere il vettore ottenuto ripetendo le operazioni matriciali fino a quando il ranking dei componenti del vettore (cioè i singoli indicatori di complessità dei paesi/prodotti) non presenta più variazioni rispetto allo step precedente [2].

I risultati finali consentono, a livello di paesi, di evidenziare quelle economie detentrici, grazie alla loro complessità, di vantaggi competitivi significativi e, di conseguenza, migliori prospettive di resilienza e sviluppo potenziale, mentre a livello di prodotti segnalano il diverso contenuto di know how in essi incorporato e, di fatto, la facilità o meno con cui possono essere esportati dai vari paesi sulla base del loro stadio di maturazione.

Sulla base della metodologia sviluppata dall’Harvard’s Center for International Development, abbiamo calcolato il ranking dell’ECI per le maggiori economie mondiali, basandoci su dati di commercio internazionale al quarto digit della classificazione Harmonized System, per gli anni 2010, 2014 e 2017 e associato tali ranking alle quote di mercato dei singoli paesi.

 
Economic Complexity Index, il ranking dei principali paesi
 

Al fine di evitare il rischio di segnalare come specializzati quei paesi che conseguono elevati valori di export in un dato prodotto per effetto di attività di ri-esportazione (eventualità non colta dai normali indici di specializzazione, tipo la rca), abbiamo adottato una definizione più stringente di specializzazione (rcap), considerando per un paese un vantaggio comparato nell’export di un prodotto solo quei casi in cui alla specializzazione all’export  di quel prodotto si affianca un saldo commerciale positivo del paese, sempre relativamente al singolo prodotto analizzato. Inoltre, per ridurre il “rumore di fondo” derivante dai dati di commercio mondiale poco significativi, sono stati eliminati i paesi che non raggiungono i 20 miliardi di export (ovvero con quote di mercato inferiori allo 0.06%, nel 2017) e i prodotti con commercio mondiale inferiore al miliardo di dollari. Il db effettivo è così risultato composto di 70 paesi e oltre 1200 codici HS al quarto digit.

I risultati ottenuti sono molto simili a quelli dell’ECI (il cui ultimo anno disponibile è il 2016), in particolare per quanto riguarda le primissime posizioni, caratterizzate da paesi molto diversi tra loro sia per dimensione sia per quote di mercato (in livello e in dinamica), ma mantenendo in comune elevati livelli di ricchezza media e i primi posti nelle più tradizionali classifiche relative a capacità innovativa, efficienza dei mercati e competitività dei rispettivi sistemi economici.

Per quanto riguarda l’Italia, il valore conferma il ritardo spesso attribuito al paese in termini di complessità industriale e di specializzazione produttiva, ma evidenzia anche uno dei più forti miglioramenti (il quarto, nei paesi qui riportati) nel corso degli ultimi anni, segnalando il progressivo upgrading della manifattura verso produzioni via via più complesse, oltre che, come sottolineato in altri studi, di prezzo medio più elevato (in particolare nel Made in Italy tradizionale) e in settori a maggior contenuto tecnologico (meccanica e automotive su tutti).

Sempre in termini di dinamica, in un quadro tutto sommato stabile, spiccano i valori dei paesi asiatici, tutti caratterizzati da forti incrementi nel ranking di complessità, ma con livelli molto diversi tra Giappone, Singapore e Corea, da un lato, e Cina e Hong Kong dall’altro, che riflettono le profonde differenze all’interno dell’area asiatica in termini di specializzazioni produttive.