L’auto elettrica lancia la corsa alle miniere nel deep sea

L’auto elettrica lancia la corsa alle miniere nel deep sea

29 novembre 2018

Stefano Sparacca

Si intensificano le attività di estrazione di minerali dai fondali marini, ma permangono le preoccupazioni per l’impatto ambientale. Tramite Prometeia MIO è possibile rimanere aggiornati sul mercato auto e sui prezzi delle commodity

 

La transizione nel settore dei trasporti dal monopolio dei veicoli alimentati con combustibili fossili verso la mobilità elettrica dipende in misura significativa, oltre che dalle scelte strategiche delle autorità politiche, dalla disponibilità di minerali come il cobalto, uno dei principali input (insieme a nichel, terre rare ed altri) nella produzione delle batterie dei veicoli elettrici e più in generale delle nuove tecnologie per l’energia pulita.

La domanda crescente di questi metalli sta infatti mettendo sotto pressione l’offerta globale, spesso dipendente da pochi siti minerari (e a volte, come nel caso del cobalto, in zone politicamente instabili e con criticità infrastrutturali come la Repubblica Democratica del Congo). Oltre alle inevitabili conseguenze sui prezzi, tali dinamiche pongono dei dubbi sull’adeguatezza nel medio lungo-periodo delle riserve di questi metalli nel processo di espansione del mercato dell’auto elettrica.

In quest’ottica, i depositi minerari nel deep sea (mari con profondità superiore ai 200 metri) sono oggetto di crescente attenzione da parte dei produttori mondiali. Le risorse sui fondali possono distinguersi in noduli polimetallici (contengono principalmente nichel, cobalto, manganese e rame, e sono di origine vulcanica), croste di ferromanganese con elevate concentrazioni di cobalto e solfuri polimetallici di origine idrotermale. Secondo le stime dello US Geological Survey (USGS) i depositi sottomarini profondi contengono più cobalto di tutte le miniere terrestri:

 
L’auto elettrica lancia la corsa alle miniere nel deep sea
 

La corsa allo sfruttamento di queste risorse da parte di aziende private, ma anche di governi nazionali, è già cominciata da qualche anno, regolamentata dall’International Seabed Authority (ISA), un organismo delle Nazioni Unite, per quanto riguarda le attività estrattive e i relativi permessi (anche per la sola esplorazione) nelle acque internazionali (se le risorse sono situate all’interno di una Zona Economia Esclusiva di un determinato Paese, entro 200 miglia nautiche, questo ha il diritto esclusivo di estrazione o di assegnare licenze a società di estrazione estere).

L’estrazione mineraria nelle profondità marine è estremamente costosa a causa delle condizioni estreme (grandi profondità, alta pressione e basse temperature), ma da decenni diverse grandi imprese hanno investito in ricerca e sviluppo. Investimenti che hanno consentito di implementare macchinari (spesso dei rover gestibili da remoto dalle navi di appoggio o applicazioni robotiche simili a quelle adottate nell’estrazione offshore del petrolio) in grado di dragare e aspirare materiali (nel caso dei noduli), di frantumare la roccia vulcanica (nel caso di altri tipi di depositi minerali) a profondità variabili tra gli 800 e i 7 mila metri. Se fino a non molto tempo fa lo stato delle tecnologie poneva dei grossi limiti alla sostenibilità degli investimenti nell’estrazione dai fondali, gli strumenti attuali sembrano garantire risultati produttivi soddisfacenti tali che, secondo le più recenti valutazioni di alcuni esperti del settore, le attività estrattive dei principali metalli utilizzati nell’automotive, ai prezzi correnti, risulterebbero già adesso profittevoli, con rendimenti in linea con quelli delle miniere terrestri.

Al momento attuale sono circa 30 le compagnie/governi ad aver ottenuto la concessione da parte dell’ISA, e dal 2019/2020 si dovrebbe osservare un’intensificazione delle attività. A fronte della rapida evoluzione di questi eventi, permangono i dubbi di numerosi scienziati e di diversi enti, governativi e non, sui possibili impatti ambientali. A parità di quantità di minerali, l’estrazione nei fondali oceanici coinvolge infatti superfici molto più estese rispetto all’estrazione da miniere terrestri. Inoltre, i detriti liberati dalle attività di estrazione potrebbero incidere negativamente sugli ecosistemi locali e non sono ancora ben chiare le potenziali conseguenze di medio-lungo termine. Secondo le stime dell’USGS, considerati gli attuali trend di mercato, i minerali provenienti dal deep sea costituiranno circa il 5% dell’offerta globale entro il 2030 e il 15% entro il 2050, numeri che rendono chiara la necessità di rendere compatibili tali sviluppi con un’adeguata protezione degli habitat oceanici da danni che potrebbero risultare irreversibili.