Con un contributo al commercio mondiale di 9.300 miliardi di euro (di cui più di un quarto intra area) e con oltre 2.2 miliardi di persone coinvolte, i 15 firmatari dell’accordo RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) hanno dato vita nel corso dello scorso fine settimana al più grande accordo di libero scambio mai siglato.
Soprattutto dal punto di vista degli equilibri geopolitici l’intesa segna un passo fondamentale nel delineare l’influenza prospettica della Cina nella regione a scapito di Stati Uniti, Europa, ma anche dell’India, altra grande potenza emergente dell’Asia. Le conseguenze sugli scambi spiegano quindi solo una parte dell’importanza strategica di una partnership, che dal punto di vista strettamente commerciale guarda più agli impatti di medio termine (armonizzazione delle rules of origin in modo da favorire lo sviluppo di catene del valore regionali tramite standard tecnici comuni), che di breve (esclusione di settori e temi sensibili come tutela del lavoro, public procurement, protezione ambientale e della proprietà intellettuale).
È tuttavia innegabile che anche limitando la lettura alle sole tariffe doganali, l’accordo coinvolge Paesi mediamente protetti ed è quindi candidato a generare effetti sensibili di trade diversion (sostituzione di fornitori a causa del trattamento preferenziale di alcuni), penalizzanti per quanti rimarranno esclusi.
Per l’Italia si tratta di mercati che valgono nel complesso 39 miliardi di euro (l’8% del suo export) e che soprattutto rappresentano destinazioni fondamentali per la ripresa dei prossimi anni (nel 2021 la crescita dell’import di questi Paesi è per esempio prossima al 10%, almeno due punti sopra quella attesa per la media degli scambi mondiali).
Un trattamento discriminante dal punto di vista delle tariffe rappresenta certamente un fattore penalizzante per le imprese nazionali. Visto in termini relativi, lo shock competitivo varrà anche verso mercati come Giappone, Corea, Singapore dove l’Italia andrà infatti a perdere vantaggi di accesso che erano fin qui garantiti dagli accordi bilaterali dei singoli con l’UE. In particolare nei suoi principali settori di export, l’industria italiana subiva già prima dell’accordo una forte concorrenza dai Paesi firmatari, che detenevano una quota media sull’import manifatturiero di oltre il 50%, rispetto a un dato italiano medio dell’1.3%; una pressione competitiva necessariamente destinata ad aumentare dopo le preferenze tariffarie concesse dall’accordo ai partner regionali.