Da potente motore della crescita mondiale fino alla grande crisi del 2008-’09, il commercio internazionale non riesce da alcuni anni a fornire significativi contributi positivi a un contesto macroeconomico che stenta a recuperare slancio. In particolare, appare messa in dubbio la piena partecipazione di un sempre maggior numero di paesi ai processi produttivi e, soprattutto, allo sviluppo della domanda mondiale, con possibili ripercussioni negative anche sulle opportunità per le imprese esportatrici italiane.
Se fino a prima della crisi, infatti, le economie emergenti contribuivano alla crescita degli scambi aprendo i loro mercati, in forte espansione, alle merci straniere, oggi tale modello pare essere mutato. Il caso cinese è emblematico e paradigmatico di quel che sta accadendo: un incremento della domanda cinese sarebbe stata soddisfatta da input stranieri (merci e valore aggiunto) per il 14% nel 2008, ma solo per l’11% nel 2014. Per contro, un’equivalente crescita del 5% della domanda globale sarebbe stata soddisfatta dalla Cina, sempre in termini di merci e valore aggiunto, per il 7% nel 2008 e, con un raddoppio in soli sei anni, per il 14% nel 2014.
L’insorgere di dubbi circa la sostenibilità futura di un tale scenario, soprattutto in quei paesi di più antica industrializzazione che vedono, da un lato, minori prospettive di crescita attraverso i mercati internazionali e, dall’altro, una maggiore competizione sul fronte interno per via delle pressioni esercitate dagli emergenti, potrebbe essere alla base delle tendenze neoprotezionistiche che caratterizzano l’attuale fase storica.