O tempora, o mores: il concetto di fair trade ai tempi di Trump

12 giugno 2017

claudio.colacurcio@prometeia.com

Oggi il richiamo all’equità degli scambi sembra misurarsi con il bilancino

 

Dalla giustizia sociale a quella contabile, il concetto di fair trade ha assunto nell’era Trump un nuovo significato. Se agli albori della globalizzazione, la richiesta di un commercio cosiddetto giusto chiamava in causa valori nobili e un sistema di regole mondiali che tutelassero diritti e condizioni dei lavoratori, oggi il richiamo all’equità degli scambi sembra misurarsi con il bilancino. La parola è ridotta a un poco comprensibile auspicio di bilanciamento dei flussi di import ed export tra due partner commerciali.  Si tratta certo di una visione figlia del suo tempo, in cui davanti all’apertura verso il mondo è più facile vedere minacce esterne che reciproche opportunità. L’import è di conseguenza qualcosa da minimizzare o almeno da ribilanciare con flussi attivi in un ipotetico gioco a somma zero che dovrebbe essere il commercio internazionale del terzo millennio. 

Non sono mancate negli ultimi mesi vere e proprie proposte che adducessero indicatori peculiari come i saldi bilaterali di bilancia di pagamento per giustificare rinegoziazioni delle condizioni alla base degli scambi. Lo stesso Michael Froman, capo delegazione per il TTIP nell’amministrazione Obama, ha per esempio dichiarato alla presentazione dello studio di Prometeia e Confindustria Esportare la Dolce Vita, come il saldo attivo dell’Italia verso gli Stati Uniti potrebbe rappresentare una criticità nei rapporti commerciali tra i due paesi. 

 
Fonte: elaborazioni su dati Istat
 

Al di là di perplessità sull’utilizzo di un simile indicatore, un paese di 300 milioni di consumatori necessariamente assorbirà più di uno 5 volte più piccolo anche in un mondo “giusto”, è proprio la sua interpretazione in chiave protezionistica a destare la maggior attenzione. Seguendo questo approccio, il peggioramento oggettivo del saldo commerciale manifatturiero con l’Italia (passato da un deficit medio di 15 miliardi di euro tra il 2000 e il 2008 a quasi 24 nel biennio 2015-’16) visto dagli Stati Uniti non è motivo d’orgoglio per una ripresa della domanda interna americana evidentemente più intensa di quella europea, o tuttalpiù uno stimolo a guardarsi dentro e migliorare la competitività dell’industria attraverso investimenti e innovazione. Al contrario diventa agli occhi del neo protezionismo qualcosa da correggere attraverso barriere artificiali, penalizzando così, oltre alle imprese italiane, anche gli stessi acquirenti domestici (che pagano maggiormente un bene importato o sostituiscono il fornitore non per scelta, ma solo perché forzati). 

Ma è davvero un problema di dazi? Il portale MIO consente in pochi click di ricostruire per ogni settore e mercato le tariffe doganali pagate dalle imprese. Da questa emerge come negli scambi bilaterali con gli Stati Uniti, le imprese italiane affrontino in realtà (anche per via della diversa specializzazione tra i produttori) dazi mediamente più elevati di quelli delle controparti americane per accedere al mercato italiano (2,8% rispetto all’1,7%). Nel dettaglio, 9 dei 18 settori in cui è possibile scomporre l’interscambio vedono dazi americani effettivamente più contenuti, ma solo per l’alimentare e l’automotive la differenza è significativa e l’entità dei flussi collegati è significativa. Sul fronte opposto l’export italiano è relativamente più penalizzato in ambiti decisamente strategici per l’industria nazionale come la moda, i prodotti per costruzione, l’oreficeria gioielleria, la meccanica di precisione. Se giustizia andrebbe invocata, non è detto in altre parole che l’ago della bilancia penderebbe verso ovest….

 
Fonte: elaborazioni su dati Istat